G8 Genova: Marina, Alberto e Gimmy siamo noi
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto il 20 giugno 2013.
Con la sentenza definitiva su Bolzaneto si è concluso anche l’ultimo dei grandi processi simbolo sul G8 del 2001. Sarebbe dunque tempo di bilanci e di qualche ragionamento, ma in giro sembra esserci poca voglia di farlo. Anzi, paragonato al clamore mediatico che un anno fa aveva accompagnato la sentenza Diaz, quella su Bolzaneto è passata praticamente inosservata.
Nulla di sorprendente, in fondo, perché tutti sapevamo che quella sentenza non avrebbe aggiunto nulla di nuovo. E poi, sono passati parecchi anni, quel movimento non c’è più e i tempi sono cambiati. Tutto comprensibile, per carità, eppure c’è qualcosa che non quadra, che stona terribilmente.
Già, perché alla fin della fiera, dopo tante sentenze e l’accertamento di un numero impressionante di gravi reati contro la persona, gli unici che stanno in galera, peraltro con pene allucinanti fino a 14 anni, sono alcuni manifestanti di allora, presi a casaccio e colpevoli esclusivamente di aver danneggiato delle cose. Si chiamano Marina, Alberto e Gimmy.
Peraltro, il numero degli ex manifestanti carcerati potrebbe pure crescere, visto che i condannati in via definitiva per “devastazione e saccheggio” sono dieci. Degli altri uno è irreperibile, Ines è agli arresti domiciliari e per cinque è necessario un nuovo passaggio in appello, ma limitatamente a un singolo attenuante.
Penso che abbandonare quelle persone al loro destino sia inammissibile. Umanamente, moralmente e politicamente. L’esito complessivo dei processi genovesi, con la sua manifesta disparità di trattamento, è infatti destinato a fare da precedente, a rafforzare la sensazione di impunità tra il personale degli apparati di sicurezza e a legittimare l’uso di pene sproporzionate ed esemplari contro manifestanti.
Il reato di “devastazione e saccheggio”, risalente al periodo fascista, non è certo l’unico strumento giuridico a disposizione per fini repressivi, ma è senz’altro quello più estremo e discrezionale, poiché non ti punisce per quello che hai fatto, ma per averlo fatto in determinate circostanze. Ed è così che una bagatella, come una vetrina rotta, può trasformarsi in un reato paragonabile all’omicidio. Ebbene sì, perché la pena prevista per devastazione e saccheggio è tra 8 e 15 anni, mentre quella per omicidio preterintenzionale è tra 10 e 18 anni e quella per omicidio colposo non supera i 5 anni.
Quando giustamente ci indigniamo per la brutalità della repressione in Turchia, dovremmo ricordarci anche di questo, specie ora, visto che quel tipo di accusa viene utilizzato in maniera sempre più disinvolta, come sembrano indicare i processi per i fatti di Roma del 15 ottobre 2011.
L’altra faccia della medaglia, altrettanto grave, è l’impunità degli apparati repressivi. Nessuno pagherà per le violenze della Diaz e di Bolzaneto, mentre per l’omicidio di Carlo Giuliani non c’è stato nemmeno il processo. Beninteso, la questione non è invocare la galera per i poliziotti, ma comprendere che l’impunità genera mostri. Siamo sicuri che i casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, Ferrulli eccetera non c’entrino con tutto questo? O che non c’entri il fatto che i reparti antisommossa italiani riescano a resistere al numero identificativo sul casco, quando persino i loro colleghi turchi ce l’hanno?
Insomma, qui non si tratta di dibattere sul passato, bensì di costruire ora e qui una battaglia politica per l’abrogazione del reato di “devastazione e saccheggio”, per l’introduzione di norme cogenti che pongano fine all’impunità, a partire da una legge sulla tortura, e per un’amnistia per i reati sociali, che possa restituire la libertà anche a Marina, Alberto e Gimmy.
Dopo la sentenza Bolzaneto
Con la sentenza, ampiamente annunciata, si chiude anche il processo per i fatti riguardanti la caserma di Bolzaneto. A distanza di un anno dalla Cassazione per i fatti della Diaz e dal processo ai 10 tra compagni e compagne (3 attualmente in carcere per una lunga pena) un altro tassello va a comporre il mosaico della “verità giudiziaria” su Genova 2001. Ma non è l’ultimo tassello, anzi.
La settimana precedente, nel silenzio generale, accadevano due fatti altrettanto importanti:
mentre lo Stato, arrestava in Spagna Francesco Puglisi, uno dei condannati a 14 anni, per aver danneggiato cose, 222 denunce di manifestanti che chiedevano giustizia per essere stati picchiati in strada o arrestati senza motivo, venivano archiviati. Così, come se non fosse mai accaduto nulla. Del resto proprio venerdì, lo stesso Stato che non ha mai chiesto scusa per i fatti accaduti dentro la caserma di Bolzaneto, incassava in Cassazione un verdetto che stabilisce che i danni subiti dai manifestanti, e i conseguenti risarcimenti, dovranno essere rideterminati da un giudice civile per “assenza di prove”.
In questi 12 anni, non abbiamo mai pensato che Genova fosse una pagina chiusa. Ora che sostanzialmente tutti i procedimenti giudiziari sono arrivati al termine pensiamo che la storia genovese, che molti hanno avuto difficoltà a capire, si riflette giorno dopo giorno, dentro le caserme tanto quanto in piazza oltre a sancire un nuovo principio: colpire le cose è ben più grave che colpire una persona. Un omicidio vale, penalmente, meno di un uomo o una donna che danneggiano delle vetrine.
L’art.419, i reati per devastazione e saccheggio, usato come clava nei confronti di 10 manifestanti per condannarli a pene dagli 8 ai 15 anni, è un retaggio del codice Rocco. Un articolo nato a inizio secolo scorso per reprimere le rivolte popolari e usato da Genova in poi come arma di punizione nei confronti dei manifestanti, è diventato un articolo comodo per reprimere il dissenso: per il gli scontri del 15 ottobre 2011 a Roma, alcuni manifestanti sono stati già condannati pesantemente e altri rischiano tuttora di esserlo, il prossimo 27 giugno inizierà infatti un altro processo su quei fatti. Nelle caserme o nelle carceri i casi di “incidenti” sono emersi all’opinione pubblica, agitando sonni, solidarizzando con famiglie sconosciute e vittime della violenza o incuria di Stato.
Bolzaneto ieri, Bolzaneto oggi. Del resto in Italia non viene riconosciuta la tortura, motivo per cui quasi tutti gli accusati, hanno visto i loro reati andare in prescrizione. Genova 2001 ieri, Piazza Taskim oggi. L’Italia ha fatto scuola di formazione di repressione del dissenso anche in altri paesi, ma i media nostrani riconoscono le violenze soltanto a casa degli altri.
Quindi chiusa la parte processuale, chiusi i vari comitati che chiedono verità e giustizia, agli stessi che la nascondono e la negano, continueremo a lottare affinché Genova 2001 si attualizzi attraverso la cancellazione dei reati di devastazione e saccheggio e di quella parte del codice penale emanazione del codice Rocco. Stringendoci attorno a Marina, Alberto e Francesco, attualmente detenuti. Mantenendo vigile l’attenzione anche per i risarcimenti riguardanti Bolzaneto, che dopo 12 anni ancora devono essere riconosciuti. Solidarizzando con i 18 rimandati a giudizio per i fatti del 15 ottobre del 2011.
No, Genova non è finita. E’ tutti i giorni.
La “sindrome del black bloc”
Di Zeropregi (@zeropregi)
Lettera pubblicata su Il Manifesto del 18 giugno 2013
Caro Manifesto,
ora che con la cassazione di Bolzaneto si sono chiusi tutti i processi riguardanti Genova 2001 credo sia il momento di fare un ragionamento a 360°. Onestamente trovo fastidioso che sistematicamente vengano chiesti commenti esclusivamente ad Agnoletto e/o Casarini, perché quella storia lì è una storia molto più grande di loro, che non riguarda solo loro, una storia di cui, oltretutto, faticano tuttora a capire e comprendere la portata.
Al di là delle responsabilità politiche, che sono non tante, tantissime, rimarrei su quello che la lezione di Genova è realmente stata mentre scorrono immagini via streaming di Piazza Taksim, mentre tutti ci si riscopre solidali con i rivoltosi genovesi, compreso chi all’indomani del 21 luglio accusava parte di quella enorme composizione, di essere fatta di fascisti, infiltrati, violenti, etc etc. La sindrome del Black Bloc ha bloccato e impantanato le manifestazioni degli anni successivi, immobilizzando un movimento nella dicotomia violenza/non violenza, come se il tutto fosse un problema di schieramenti e non di pratiche o di percorsi politici e radicali.
Se ora ci ritroviamo con 10 persone (di cui 3 in carcere) con condanne che vanno dagli 8 ai 15 anni è anche grazie al fatto che nessuno ha voluto assumersi la loro difesa. Abbiamo preferito formare comitati che chiedevano verità e giustizia, legittimo sia chiaro, ma creando un cortocircuito: come è possibile chiedere verità e soprattutto giustizia, a uno Stato che negli anni, attraverso i propri corpi delle FDO, ha insabbiato, coperto, depistato e soprattutto promosso i “protagonisti” delle giornate genovesi?
Invece di aprire una discussione e una riflessione sulla pericolosità del reato di devastazione e saccheggio (art 419) o sul fatto che sia assente il reato di tortura dal nostro codice penale, si è preferito creare steccati e dare patenti di legittimità tra le diverse pratiche di piazza, come se una fosse migliore di tutte le altre. A prescindere. Abbiamo dovuto avere i casi Aldrovandi, Uva, Bianzino e Cucchi, per accorgerci che si può morire durante un fermo, in caserma o in carcere. Per accorgerci che si può essere torturati senza che nessuno venga nemmeno accusato di nulla, in quel caso si tratta di “eccessi”.
Neanche abbiamo avuto il coraggio di aprire una riflessione o una discussione sul come stare in piazza, sul come tutelarci, sul come non morire più o essere condannanti a 15 anni per aver danneggiato cose. Niente di tutto questo.
Per fortuna la lezione Valsusina insegna che si può essere radicali, decisi e compatti. Che non si deve per forza trovare una mediazione con chi con te non vuol mediare. Che non serve accattivarsi i media mainstream perché tanto al momento opportuno sapranno con chi schierarsi e non succede mai che si schierino con i Movimenti.
Chiudo pensando prima di tutto a Marina, Alberto e Gimmy, attualmente in carcere per i fatti del G8. Ma soprattutto sperando che Il Manifesto non si accontenti di narrare solo la cronaca, ma che dia spazio alla riflessione e alla discussione.
14 giugno cassazione Bolzaneto
Il 14 giugno prossimo si concluderà davanti alla Corte di Cassazione di Roma il processo contro i poliziotti, agenti della penitenziaria e medici responsabili delle torture fisiche e morali infitte ai manifestanti contro il G8 del 2001 a Genova, all’interno della caserma Bolzaneto, utilizzata come lager di detenzione provvisorio secondo i piani di sicurezza di quel vertice del G8.
In quel carcere improvvisato, 250 manifestanti trascorsero quattro giornate infernali, chiusi in cella, senza possibilità di avvisare avvocati o parenti, sottoposti ad ogni genere di vessazione e tortura.
Nel processo, sono 44 gli imputati coinvolti, tra medici, agenti di polizia penitenziaria, poliziotti. Solo sette sono stati riconosciuti penalmente responsabili perché per gli altri i reati sono stati prescritti. Per tutti, resta la responsabilità civile nei confronti delle attiviste e degli attivisti massacrati nel lager di Bolzaneto. I sette poliziotti già condannati in appello sono l’assistente capo della polizia Massimo Luigi Pigozzi, gli agenti di polizia penitenziaria Marcello Mulas e Michele Colucci Sabia, il medico Sonica Sciandra e gli ispettori di polizia Matilde Arecco, Matio Turco e Paolo Ubaldi.
Gli imputati sono stati tutti condannati per lesioni personali, con pene che vanno da 1 anno a 3 anni e 2 mesi.
Quello di Bolzaneto è l’ultimo dei processi dopo Genova ad arrivare a chiusura, dopo quello per le brutalità commesse all’interno della scuola Diaz e quello contro i 10 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio.
Ancora una volta, come accaduto già per la sentenza Diaz, si omette di considerare l’intera catena di comando che a Genova, in quei giorni di luglio del 2001, decise di trasformare la città in un immenso laboratorio repressivo. Da allora infatti decine sono state le morti nelle caserme, nei commissariati e nelle strade, omicidi e sevizie commesse da esponenti delle forze dell’ordine, forti di 12 anni di impunità e la recente sentenza Cucchi ne è dimostrazione. Questo mentre tre persone sono in carcere e una ai domiciliari per essere stati condannati per i reati di devastazione e saccheggio durante quelle giornate di Genova. Perché in questo paese una vetrina vale più di una vita umana.
Venerdi dalla mattina saremo a Piazza Cavour a seguire la Cassazione per le torture di Bolzaneto.
Perché Genova non è finita
Arrestato a Barcellona Gimmy
Francesco Puglisi detto Gimmy arrestato ieri a Barcellona è stato trasferito nel carcere di Madrid. Entro 30 giorni verrà mandato in Italia. Puglisi è stato condannato per i fatti di Genova 2001 ai reati di devastazione e saccheggio lo scorso 13 luglio e dovrà scontare 13 anni di carcere. Uno sproposito di anni che arriva nel giorno dell’assoluzione per i poliziotti accusati dell’omicidio di Stefano Cucchi. L’ennesima conferma che in questo paese una vetrina vale più di una vita umana. Oggi presidio a Barcellona di solidarietà per Gimmy.
Madrid (Europa Press).- Agentes de la Policía Nacional han detenido a un ciudadano italiano huido desde julio del pasado año y condenado a doce años de prisión por delitos relacionados con la tenencia y uso de armas de guerra y explosivos. Se le encuadra en grupos antiglobalización y de la izquierda italiana.
El arrestado es Francesco Puglisi, alias ‘Molotov‘ y nacido en Catania (Italia) en 1974, que se encontraba encausado en varios procedimientos penales por su participación activa en los graves incidentes ocurridos en Génova en el año 2001 durante la celebración de la Cumbre del G-8. Prosegui la lettura 'Arrestato a Barcellona Gimmy'»