«Devastazione e saccheggio», questo il reato per cui, 11 anni dopo il G8 genovese del 2001, 10 manifestanti rischiano di scontare 100 anni di carcere complessivi se il prossimo 13 luglio la Corte di Cassazione confermerà le condanne di secondo grado rendendole definitive. 100 anni di carcere sono tanti, troppi, per chi viene accusato di aver rotto una vetrina, rubato una bottiglia in un supermercato, o solo di essere presente mentre questi e altri atti venivano compiuti. Solo per essere presente? Sì, perché «devastazione e saccheggio» è un reato ereditato dal codice penale fascista, il famigerato Codice Rocco, per reprimere eventuali sommosse popolari. E che punisce anche per la «compartecipazione psichica». Il buon senso di qualsiasi cittadino «sinceramente democratico», o anche solo con un vago senso di giustizia, intuisce la sproporzione tra queste condanne e l’impunità sostanziale di cui hanno goduto i vertici e la base delle forze dell’ordine. Nonostante l’assassinio in piazza di Carlo Giuliani, i pestaggi indiscriminati di persone inermi, l’utilizzo di armi chimiche come i gas Cs; le torture di Bolzaneto e la «macelleria messicana» della Diaz. Come dire: rompere o danneggiare oggetti, nascondere il volto e partecipare a una manifestazione non autorizzata è più grave di torturare, pestare, procurare lesioni permanenti. E così non sappiamo ancora chi ha gestito l’ordine pubblico a Genova nel 2001 come a Napoli qualche mese prima, con due governi di diverso segno politico. Restano le promozioni di funzionari come l’ex capo di polizia De Gennaro. Figura di grande «spessore tecnico» se si ha intenzione di distruggere speranze e aspirazioni di un’immensa moltitudine. Capace di servire lealmente governi di centrosinistra, centrodestra e tecnici. Il processo di democratizzazione delle forze dell’ordine nel nostro paese, iniziato negli anni ’60 grazie alla capacità egemonica esercitata sulla società dai movimenti, infrantosi contro le leggi speciali dei ’70, è rimasto incompiuto. Un problema macroscopico che si riscontra nella repressione dei movimenti, ma soprattutto negli omicidi che hanno segnato questi ultimi anni, come quelli di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino o Stefano Cucchi. E di tutti gli episodi di violenza consumati nei commissariati, nei Cie e nelle carceri, relegati a meri trafiletti di cronaca. Eppure un’inversione di tendenza non sembra all’orizzonte: il 5 luglio la Cassazione emetterà la sentenza per il processo Diaz che vede imputati importanti dirigenti delle forze dell’ordine accusati, si badi bene, non delle violenze accadute nella scuola, ma di falsa testimonianza e abuso d’ufficio. Rischiano con pene che, in ogni caso, sarebbero indultate. Condanne lievi che potrebbero comportare, però, l’interdizione dai pubblici uffici per i poliziotti coinvolti. Così il 15 giugno scorso la Cassazione, con un rituale più che anomalo, unico, ha rinviato la sentenza di più di 20 giorni. In questi anni i movimenti e la società civile del nostro Paese, inutile nasconderlo, non sono stati in grado di seguire con l’attenzione e l’energia necessarie le conseguenze giudiziarie dei fatti di Genova. E il centro sinistra non può nascondere le sue responsabilità nella mancata democratizzazione delle forze dell’ordine. Non riuscendo neanche, come accade in ogni altro Paese europeo che si dica democratico, a far mettere i numeri identificativi sulle divise degli agenti. Incapace di nominare una commissione parlamentare d’inchiesta e di istituire il reato di tortura anche in Italia così come richiede l’Onu, fino alla “copertura” dei responsabili della mattanza del G8 genovese. Ora, 11 anni dopo non possiamo permettere che vada a finire così, che 10 persone vengano punite per i 300mila scesi in piazza nel 2001. Per questo nasce la campagna «Genova non è finita» (www.10×100.it), con un appello, già firmato da oltre 10 mila persone (tra cui Wu Ming, Moni Ovadia, Erri De Luca, Subsonica, Valerio Mastrandrea, Elio Germano e tanti altri) a cui invitiamo ad aderire. Così come invitiamo tutti a mobilitarsi nella settimana della sentenza. Per non lasciarli soli, perché Genova non può finire così. Perché in gioco c’è la libertà di tutte e tutti.
di Valerio Renzi da Il Manifesto del 29/6/2012